Quello che le etichette alimentari ci dicono: come leggerle correttamente

etichette alimentari

L’amore è cieco, il consumatore no. 

 

Numeri, percentuali e soprattutto, purtroppo, un’infinità di nomenclature e di ingredienti poco noti ai non addetti ai lavori: oltre al bel packaging c’è di più. Se la semiotica ci può spiegare nel dettaglio con quale processo è stato stuzzicato e livello psicologico, emotivo e visivo il nostro appetito mentale che ci ha indirizzato verso un barattolo eticamente più bello in vetro o verso una più accattivante confezione di cioccolatini avvolti nel rosso fiammante, imparare a leggere le etichette alimentari può assurgere ad essere un vero e proprio demolitore di quel “sonno della ragione” che rischia di fare male alla nostra salute. Dell’importanza di saper leggere correttamente le etichette alimentari ne avevamo già parlato discorrendo sullo zucchero, alimento killer per il nostro corpo che si cela negli alimenti in maniera silenziosa e insospettabile. I colori possono stimolare, le scritte attirarci, una buona pubblicità conquistare la nostra simpatia ma quello che davvero deve essere importante per un cliente consapevole è sapere leggere, interpretare e spiegare quello che ci dicono e non dicono le etichette alimentari. 

 

Cosa troviamo su un’etichetta alimentare?

Anzitutto, la base: sull’etichetta dobbiamo trovarci tutto. Dal dove al come, dal quanto al quando e tutte le risposte a queste domande devono essere poste in maniera assolutamente più che chiara, veritiera e indelebile.

Cosa: la denominazione

Ciò che compriamo deve avere una denominazione, un nome comunemente riconosciuto dalla legge. Libera è la fantasia di dare al proprio prodotto il nome che più convince ma, nella sostanza, qualsiasi cliente deve essere messo nella condizione di capire cosa sta comprando (se pasta, riso, formaggio, vino) attraverso la sua corretta denominazione. 
 

Dove: la tracciabilità

Per quanto cosa ormai nota, la legge che impone l’obbligo di riportare sulle etichette alimentari il luogo d’origine risale solamente al 2004. C’è però da approfondire un aspetto molto rilevante: il luogo d’origine e luogo di provenienza non sono la stessa cosa. Il luogo d’origine (dove è stato coltivato o allevato un prodotto) può variare dal luogo di provenienza che indica invece quello in cui è avvenuta l’ultima trasformazione. Entriamo quindi nel merito di prodotti che hanno subito trattamenti (tagliati, puliti, raffinati, surgelati o scongelati etc.). Per questo motivo di molti prodotti trasformati risulta impossibile risalire al luogo d’origine essendo indicata, sull’etichetta, la sola indicazione geografica relativa all’ultimo trattamento subito. 

Si veda la dicitura, presente su molte confezioni: prodotto e confezionato in Italia. Indicazione relativa alle trasformazioni del prodotto ma non all’origine. Diverso quando, sull’etichetta, possono essere presenti indicazioni fuorvianti: una bandiera italiana posta su un barattolo di ragù prodotto in Germania (simbolica, ad indicare solo l’italianità della ricetta) deve essere palesemente “smentita” per non risultare fuorviante sul luogo d’origine. Esistono altresì alimenti in commercio la cui indicazione d’origine è obbligatoria come miele, passata di pomodoro, olio d’oliva, vino, pesce, uova, carni, latte e formaggi, pasta e riso.

Gli ingredienti 

Il tasto dolente e quello ove più spesso agisce una deliberata e quanto mai nociva ignoranza. Quando mai è capitato di rintracciare una latta di passata di pomodoro ove il solo ingrediente fosse il pomodoro stesso? Spesso e volentieri le etichette risultano essere un vero e proprio pur purr rid di additivi, sostanze sconosciute, coloranti e aromi.

Addittivi e coloranti: come riconoscerli

Ed è proprio su questi che bisogna strabuzzare gli occhi: sebbene la maggior parte degli addittivi, utilizzati per lo più per la conservazione degli alimenti a lungo termine, sia innocua, alcuni possono subire modificazioni all’interno del nostro corpo o durante la cottura risultano nocivi nonché potenzialmente pericolosi per l’organismo. 

Nella grande classe degli addittivi troviamo i conservanti, che rallentano i processi di “invecchiamento”, gli antiossidanti che ne evitano l’irrancidimento, i coloranti e gli addensanti che insieme ad emulsionanti, dolcificanti ed esaltatori di sapidità vanno invece a “migliorare” le caratteristiche dei prodotti rendendole “appetitose”. 

Discorso meritatamente a parte lo meritano, negativamente, i sali di nitrati e i nitriti: con la funzione di meri “conservanti” vengono spesso utilizzati per conservare carni, insaccati e formaggi. Da un ultimo esame dell’EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, è stato provato come i nitriti, “contribuiscano alla formazione di un gruppo di composti noti come nitrosammine, alcuni dei quali sono cancerogeni”. Attualmente, i livelli di nitriti e nitrati impiegati in ambito alimentare, tutelano la salute dei consumatori ma ciò deve essere sicuramente allontanarci da un imprudente consumo di cibi che ne contengono, il cui abuso potrebbe essere dunque potenzialmente nocivo.

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