
Con la sola mano che mi restava, dopo l’incidente, ho stretto con tutte le mie forze il polso per cercare di fermare il sangue che fuoriusciva. Non ho gridato. Camminando, sono andato fin davanti ad una piccola finestra che dava sugli uffici e che permetteva di parlare con il personale.
Ricordo di essere andato davanti a chi era presente e di aver detto che mi ero fatto male. Mi hanno guardato, senza capire cosa fosse successo, e quasi ridendo ricordo mi dissero: “Prendo la cassetta del pronto soccorso”. Avevo risposto: “No, guardate, credo non sia sufficiente. Chiamate un’ambulanza”.
L’attesa dei soccorsi
Ho aspettato i soccorsi da solo, fuori, al freddo. Era fine novembre e quel che restava del braccio senza la mano, colpito dal freddo del vicino inverno, fumava per il contrasto tra l’aria gelida e il calore del sangue. Arrivata l’ambulanza, mi hanno portato al Maria Vittoria di Torino e lì mi hanno operato subito, in anestesia locale, per suturare la ferita.

Di quel momento ricordo la sega, probabilmente perché per riuscire a chiudere la ferita avevano bisogno di tagliarmi parte dell’osso e non ricordo altro e non che per lo stress e per i farmaci, mi ero addormentato. Di quel risveglio non posso dimenticare invece il primo impatto con quel mio braccio destro, gonfio a dismisura.
La mia famiglia non ne fece però un dramma, nessuna tragedia e non perché insensibili a cosa mi fosse accaduto. Nella mia famiglia i sentimenti passavano sempre un po’ in secondo piano: poco entusiasmo per le gioie e pochi drammi per le disgrazie. Si reagiva sempre e solo con senso di dovere agli eventi della vita e ricordo che il mio incidente passò come era passata una brutta polmonite. Non volevano, forse, porre troppo l’accento su quella tragedia sperando che così facendo anche per me sarebbe stato più facile superarla senza dargli un’importanza.
E anche per me, come per la mia famiglia, l’accaduto non è stato vissuto come un incidente, ho pensato solo alle cose che dovevo fare e non a quello che era successo.